LA PORTA STRETTA

Di Alessia Maria Di Biase.

Per attraversare la porta stretta, bisogna farsi piccoli, stringersi su se stessi, piegare il capo e camminare lentamente per non strusciare la pelle ai bordi, si pensa.

Questo è vero, se guardiamo solo il lato difficile del percorso: la strettoia e ci concentriamo su quell’unico particolare, che rappresenta la difficoltà.

Ma, cambiando il punto di vista, proiettando l’attenzione sulla persona piuttosto che sulla difficoltà, potrebbe essere che la porta è stretta perché le spalle di chi l’attraversa sono troppo larghe rispetto al passaggio, per poter sopportare i pesi dell’esistenza; la testa è alta, per guardare avanti ; la postura è retta, come chi non è abituato a piegarsi davanti a nulla.

Maria Rosaria e Giovanni, gli autori di questo diario, si possono osservare e commentare da entrambe le prospettive, a seconda del messaggio che il lettore intende percepire.

Se dovessi scegliere tre parole per descrivere questo racconto sarebbero: sincerità, viaggio, fede.

Il diario di Maria Rosaria e Giovanni infatti, è davvero scritto con il cuore; nella loro cronaca quotidiana i due genitori non hanno trascurato nulla della loro esperienza, condividendo le gioie al pari dei dolori, l’entusiasmo allo stesso modo dello sconforto, la forza come la fatica, mostrando a tutti come il passaggio attraverso “quella porta” possa essere meno angusto se condiviso nella vita di coppia e sociale.

Leggendo le pagine scritte a quattro mani ho percepito un ‘insieme di sensazioni.

Innanzitutto, gli autori insegnano l’accettazione di qualcosa che non possiamo cambiare, come una risorsa e non come un impedimento, come una prova che ci viene data non per dispetto ma perché, tra i tanti destinatari ai quali poteva arrivare, noi siamo quelli più capaci per affrontarla.

Marito e moglie si sostengono e incoraggiano a vicenda, costruendo giorno dopo giorno un percorso prima spirituale e poi materiale, che li porterà dall’altra parte del mondo ma anche infondo a loro stessi, sorretti dall’amore che hanno singolarmente l’uno per l’altro e condiviso per la fede.

E così, disegnano, a modo loro i contorni del percorso adottivo, un percorso che non è un ripiego, non è un sacrificio ma un viaggio continuo, l’incontro con il nuovo, il diverso.

Nelle loro pagine, raccontano minuziosamente i dettagli del loro itinerario, l’incontro con il loro bambino, il rapporto con il fratello, le valigie da fare e rifare in continuazione, gli spostamenti, i viaggi, gli alberghi nuovi, le famiglie adottive come loro, i colori della Colombia ma anche le sue difficoltà e contraddizioni.

Tutto è calcolato e organizzato nei minimi dettagli durante la loro lunga permanenza, tuttavia la fine di un lungo viaggio non è l’arrivo come si potrebbe banalmente pensare, ma il ritorno; e questo, i due genitori lo sanno bene.

Pur nell’euforia del momento, nella gioia del primo abbraccio con il loro secondo figlio, non fanno finta di non pensare a come sarà il ritorno i Italia, lontani dall’aria di continua vacanza che li ha assorbiti; quando non dovranno continuare a fare soltanto i genitori ma anche i coniugi, gli amici, i lavoratori.

Ecco perché il loro diario è sincero, è un viaggio perché raccontano il percorso dell’adozione così come descrivono le tappe dell’itinerario colombiano.

Ma, questo libro, per chi ci crede o no, è anche la testimonianza che nessuno si salva da solo.

E così, i figli hanno trovato la salvezza nei loro genitori, i quali l’hanno trovata a loro volta l’uno con l’altra e insieme nella fede che li ha scelti e poi uniti, attraversando finalmente quella porta apparentemente stretta, attraverso la quale prima o poi tutti dobbiamo passare se, vogliamo spalancare le porte e vedere la luce.